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UNA COSCIENZA PER IL GIORNO ED UNA PER LA NOTTE
     a cura di MARCO MARGNELLI
 
Una coscienza per il giorno ed una per la notte
Innanzitutto devo dire che sono contento di vedere presenti tanti giovani. In genere sono abituato a parlare a uditori più attempati e invece credo che ciò che sto per dirvi possa molto interessare ai giovani e spero che possa anche essere loro molto utile. La conoscenza della natura e della struttura della coscienza umana, l’autocoscienza della coscienza, infatti, è un sapere prezioso perché da una parte ci permetterebbe di usare meglio il nostro cervello e le sue risorse più profonde e dall’altra potrebbe portare a una maturazione degli individui in grado di cambiare la società.
Voglio dire che le società umane sono l’espressione della somma dei singoli individui che le compongono, così che una società di persone altamente evolute sarà una società altamente evoluta e, quando tutte le società del mondo fossero allo stesso livello evolutivo, si potrebbe sperare in una nuova coscienza planetaria.
Convinto di tali premesse, quando vengo invitato ad esprimermi come Presidente della Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza, non manco mai di proporre che il Ministero della Pubblica Istruzione inserisca nel piano degli studi obbligatori anche un insegnamento teorico-pratico sugli stati della coscienza ma sono certo che tale proposta ha pochissime probabilità di essere capita e tantomeno accolta.
Invece sarebbe notevolmente utile, non soltanto perché promuoverebbe l’autocoscienza ma anche a scopi pratici. Per esempio, tutti riconoscono che c’è un legame profondo tra stati di coscienza e creatività, tanto che i momenti più fertili vengono chiamati “stati di ispirazione”. Ora, è molto probabile che in un futuro del tutto prossimo, a parità di preparazione teorico/tecnica, nel mercato del lavoro, verranno preferiti i giovani che sappiano anche sfruttare le proprie risorse creative, con idee innovative, intuizioni originali se non lampi geniali e perciò sarebbe molto prezioso un addestramento fin dall’età scolare che sviluppi e potenzi la creatività individuale. La psicotecnologia per questi insegnamenti è già stata sviluppata e negli Stati Uniti è anche già stata applicata con successo. Si sono identificati almeno tre diversi metodi, tutti basati su stati modificati di coscienza, quali lo stato ipnagogico, l’ipnosi e l’autoipnosi e io, personalmente, ho condotto un corso sperimentale di due anni presso l’Accademia Italiana di Creatività e Design che ha dimostrato la correttezza sia delle basi teoriche che del progetto didattico.
Sostanzialmente il pensiero creativo avviene in una regione della coscienza che ormai tutti conoscono, almeno di nome: l’inconscio. Tale nome avverte che esso è irraggiungibile dalla coscienza ordinaria e che, pertanto, agisce fuori dal controllo della volontà. La psicotecnologia per il potenziamento dei processi creativi cui ho accennato poco fa serve sostanzialmente a superare in parte questo ostacolo creando le condizioni psicomentali perché l’inconscio possa lavorare sotto il parziale controllo della mente cosciente.
Come tutti conoscono il nome “inconscio”, così tutti ormai sono al corrente che esso è il luogo del sogno e che si può studiare la sua attività analizzando i sogni. Si può perciò dire che l’inconscio è la coscienza della notte, così come la coscienza ordinaria, quella in cui ci troviamo in questo momento, è la coscienza del giorno.
Fin dalla notte dei tempi l’uomo distingue il sogno dalla realtà, nel senso che riconosce il sogno perché ciò che vi accade non obbedisce alle leggi della realtà fisica nella quale vive durante il giorno, o meglio, nella quale vive mentre è sveglio. Ciò dipende dal fatto che nella coscienza diurna è contenuta una “rappresentazione del mondo” che può essere paragonata a un programma operativo di computer, nel senso che serve ad elaborare informazioni. In questa rappresentazione “virtuale” del mondo fisico un prato non può essere altro che verde o, al massimo, giallastro, mai blu o violetto, i cani non parlano e gli umani non possono volare; così che, se vedessimo un prato blu, avremmo immediatamente l’impressione che ci sia qualcosa di sbagliato e se, ci accorgessimo di poter andare al lavoro volando, dubiteremmo di essere svegli e, forse, andremmo di corsa da uno psichiatra. Il “mondo virtuale di riferimento” perciò è come un programma operativo che analizza le informazioni sensoriali confrontandole con i parametri in base ai quali è stato costruito. E’ una rappresentazione dai limiti molto precisi, che sono al tempo stesso i limiti dei nostri sensi e quelli della realtà fisica. La nostra vista, per esempio, è insensibile alla banda ultravioletta e perciò non possiamo vedere certi dettagli della realtà fisica che pure esistono e, se per un attimo vedessimo con gli occhi di un insetto che, invece, sono sensibili all’ultravioletto, non troveremmo la spiegazione di tali immagini nel “programma” mondo di riferimento, semplicemente perché non la contiene.
La rappresentazione del mondo, infatti, non è contenuta nella nostra mente già alla nascita ma comincia a formarsi a partire dal momento in cui apriamo gli occhi per la prima volta e continua per tutto il periodo dell’infanzia.
Alla nascita la coscienza è, come sostenevano già molti filosofi del passato, una “tabula rasa”, una tavoletta sulla quale non c’è scritto niente e, riprendendo la metafora informatica, oggi diremmo che è come il disco fisso di un computer nel quale non sia stato ancora immesso nessun programma di istruzioni operative. Sarebbe un disco “formattato”, nel senso che è preparato a ricevere qualunque tipo di istruzioni e che, non appena queste cominciassero a riempirlo, potrebbe, a sua volta far girare il computer. Così è la coscienza neonatale: un disco vergine pronto ad essere “riempito di realtà”.
E’ questo il processo di formazione del “mondo di riferimento”.
Esso comincia fin dai primi giorni di contatto dei sensi con la realtà della materia: la mente deve imparare il caldo/freddo, la luce/buio, il liscio/ruvido, il molle/duro, il silenzio/rumore, e così via fino ad avere uno “scheletro” di sensazioni elementari partendo dal quale può cominciare a costruire una “rappresentazione interna della realtà esterna”. Contemporaneamente occorre che qualcuno “dia un nome alle cose” e cioè che cominci a dare un significato alle sensazioni elementari, dando avvio anche alla costruzione della “realtà concettuale”. Si impara il linguaggio, si impara l’identità (“Questo sono io”, “Io mi chiamo Marco”, “Io mi chiamo Susanna”) si impara il senso delle situazioni, delle emozioni, dei sentimenti e si imparano le regole che governano tutto questo. Finché siamo bambini siamo “fuori dal mondo”, “nel mondo dei sogni”, “fuori della realtà” e quando abbiamo imparato la coscienza siamo pronti a inserirci nella realtà fisica e sociale: siamo “maturi”.
In quel momento avremo una completa coscienza del giorno che contiene vari programmi e sottoprogrammi operativi: la rappresentazione del mondo fisico, l’identità, il linguaggio, il lessico dei sentimenti e altro che ci serve per vivere, di giorno ed ogni giorno, nel mondo della materia e in mezzo ad altri umani. Questa coscienza è stata definita “ordinaria”, nel senso che è quella comune a tutti, ma è anche stata definita “consensuale” nel senso che alla sua formazione non hanno provveduto solo i sensi ma anche la cultura. Assegnare il nome di “rosso” a un determinato colore è una convenzione che, nella notte dei tempi, hanno accettato tutte le culture: si sarebbe indifferentemente potuto decidere che il nome dello stesso colore fosse “blu” e oggi lo chiameremmo così. In altre parole, la cultura è nata di pari passo con l’interpretazione dei messaggi dei sensi e oggi per costruire una coscienza al passo con il tempo nel quale ce ne si deve servire, bisogna inserire nella rappresentazione del mondo anche la “cultura”.

Le ricerche neurobiologiche degli ultimi cinquant’anni hanno accertato che questo tipo di coscienza, quella del giorno, risiede nell’emisfero sinistro del nostro cervello (nei destrimani, l’inverso nei mancini) e che questa coscienza elabora le informazioni secondo delle regole che sono state chiamate del “pensiero secondario”. Non perché sia inferiore al pensiero “primario” ma perché innanzitutto si è sviluppato dopo di questo e poi perché deduce il significato delle informazioni solo dopo averle accuratamente analizzate e dopo averle confrontate accuratamente con le informazioni di riferimento depositate nella memoria elementare (in pratica con il modello del mondo di riferimento). E’ un lavoro analitico che funziona con le regole della logica sequenziale, tipo: se A è uguale a B, B sarà uguale ad A, oppure: 2+2 = 4, e che ha fatto affibbiare all’emisfero sinistro il nomignolo di “emisfero ingegnere”.
Alla fine della giornata, quando andiamo a dormire, in realtà mettiamo a letto la coscienza ordinaria e, per ragioni misteriose, ancora tutte da scoprire, ci abbandoniamo alla coscienza della notte, quella del sogno.
Essa, come dicevo all’inizio, non rispetta le regole del mondo fisico così che i prati possono essere blu o violetti, si può andare al supermercato senza camminare e si può parlare con il proprio gatto. Da ciò si deduce che questa coscienza non contiene il modello di realtà di cui si serve l’altra e ciò è logico perché, se il modello del mondo della coscienza diurna si forma mentre siamo svegli, nella coscienza del sonno, quando il cervello non è più in contatto con la realtà ambientale, ciò non può avvenire. Nondimeno, come dimostrano proprio i sogni, questa coscienza “pensa”, pensa a modo suo, certo, ma comunque dimostrando che è in grado di elaborare informazioni e di inventare situazioni, trame e copioni e, anche, di arrivare a interessanti deduzioni. Quale è allora il suo modello di riferimento? Quali sono state le informazioni che le hanno permesso di costruire un qualunque “mondo” o una qualunque “realtà” di riferimento?
Per capirlo bisogna tenere conto di due elementi fondamentali: prima di tutto che il ciclo veglia/sogno è programmato geneticamente, così che non possiamo opporci al sonno e ciò significa che esso svolge una vera e propria funzione biologica e, in secondo luogo, bisogna tenere ben presente che, se c’è una realtà di riferimento, essa non può essere altro che “interna”, ovvero nel cervello stesso o nel corpo.
Dire che il sogno svolge una funzione biologica significa paragonarlo ad altre funzioni vitali per la sopravvivenza, come la riproduzione delle cellule o la distillazione dell’urina da parte dei reni e, per di più, visto che il sognare è un bisogno quotidiano, vuol dire anche che si tratta di una funzione importante. Questa constatazione dovrebbe metterci sulla buona strada per capire a cosa serva sognare.

Un altro indizio importante è proprio il fatto che l’inconscio non sembra contenere nessun modello di realtà e che, se si sa come suggerirgliene uno qualunque, esso lo accetta senza resistenze. Per esempio, in ipnosi, e cioè in uno stato di coscienza nel quale si ha un accesso diretto all’inconscio, è possibile indurre un’analgesia tanto profonda da poter praticare degli interventi chirurgici: ebbene, per farla insorgere e sviluppare, basta “raccontare” all’inconscio una bugia, come fece Chertok su una paziente che doveva essere operata ad un ginocchio. Le disse: “Tra poco, dal tuo ginocchio ti arriveranno delle sensazioni che andranno in un’altra parte della tua mente. Non si tratterà di vero dolore, ma dei fastidi simili a quelli che ti provoca il sole quando prendi la tintarella”. In realtà, l’ipnotista aveva suggerito “un falso modello di realtà” (prendere il sole sulla spiaggia), aveva mentito sulla vera natura delle sensazioni (non si tratterà di vero dolore) e aveva suggerito anche un modo per ignorare la verità (andranno in un’altra parte della tua mente). Tutto ciò può essere possibile perché, in assenza di un modello di realtà fisica qualunque altro modello può andare bene. Detto così può sembrare che la coscienza ipnotica sia un po’ idiota e, se si analizza il suo modo di pensare, l’impressione può essere anche più tremenda: Jung, per esempio, ebbe a dire “osservate il sogno e vedrete la psicosi” e ciò è tanto vero che se una mattina vi presentaste a un Pronto Soccorso raccontando il sogno che avete appena fatto come se fosse un evento realmente accaduto, lo psichiatra di guardia vi ricovererebbe.

In realtà, la coscienza del sogno pensa in modo “primario” e cioè con una logica associativa, ovvero “analogica”, tipo: “ho visto un profilo a denti di sega e ho capito come risolvere un’equazione di quinto grado”, pensa in un modo che è stato anche definito “pre-logico”, oppure in un modo che è stato definito “magico”, tutti modi di pensare che sono stati anche definiti “regressivi” e cioè che tornano al modo di pensare dei bambini o a quello dell’uomo primitivo.
E’ quindi doveroso chiedersi perché nasciamo ignoranti e ogni notte dobbiamo tornare bambini.
Il vuoto informatico della coscienza della notte può essere anche spiegato immaginando che metà del disco fisso originario, la coscienza vergine, sia rimasta intatta e che ogni notte la nostra mente torni in questa condizione semplicemente per riposare dalla fatica di pensare e di vivere nel mondo materiale. Tuttavia ciò non soddisfa perché i sogni, come ho detto, hanno/devono avere un’importanza biologica e, se bastasse riposare la mente, non sarebbe necessario farli. Dopo tutto, accanto al sonno sognante c’è anche il sonno senza sogni nel quale, fra l’altro, passiamo più tempo che in quello onirico.

Il problema potrebbe sciogliersi se pensiamo anche a un altro attributo che viene riconosciuto all’inconscio, quello di contenere gli “istinti” e cioè dei “programmi operativi” per la sopravvivenza che sono talmente prioritari e potenti da far di noi, potenzialmente, dei delinquenti, degli egoisti che per un pezzo di pane potrebbero uccidere o che, per riprodursi, potrebbero diventare dei violentatori.

Io penso che questo sia il “modello di riferimento” della coscienza onirica e che esso si sia formato durante la vita fetale e cioè che le “sensazioni” del feto abbiano guidato, non meno che l’interazione dei sensi con la realtà materiale, la creazione di una condizione di riferimento che è il perfetto benessere, l’omeostasi nirvanica della quale godiamo mentre stiamo sviluppandoci nell’utero. Si fluttua nell’acqua calda, a temperatura costante, senza peso, in un gradevole buio e in un ovattato silenzio, senza null’altro da fare (soprattutto senza dover pensare) che godere di questa immutabile tranquillità, portati in giro e nutriti senza sforzi da parte nostra e ricevendo (si suppone) ondate d’amore materno che ci arrivano attraverso i misteriosi canali che legano la madre con il suo bambino.
Se questo è veramente il modello di riferimento della coscienza primigenia ovvero di quella parte del disco fisso che resta vuota anche dopo lo sviluppo della coscienza della veglia, allora i sogni servono a eliminare i problemi che ci impediscono nella vita materiale di vivere questa condizione anche durante il giorno. I sogni, infatti, sono costruiti con materiali provenienti dalla realtà fisica, dalla coscienza diurna, e questi spezzoni di vita vissuta o queste preoccupazioni della quotidianità appaiono alla coscienza onirica come minacciosi ostacoli sulla via del benessere assoluto, come gravi danni all’equilibrio omeostatico nel quale non succede nulla e tutto è immutabilmente perfetto. La coscienza della notte lavora per eliminarli, fornisce cento soluzioni immaginarie tentando di aiutare la coscienza diurna a non soffrire, a non preoccuparsi e a recuperare benessere e salute.
Ecco dunque da dove nasce la creatività: nasce dal vuoto, nasce dall’assenza di modelli vincolanti e limitativi, nasce dall’impulso a vivere in condizioni nirvaniche. Ciò dovrebbe spiegare molto bene perché la moderna psicologia, invece di considerare l’inconscio il luogo delle nefandezze oppure l’oscuro sotterraneo nel quale si nasconde ogni sorta di bestiacce, è giunta a considerare l’inconscio la parte migliore della nostra mente, quella che contiene “le risorse”, “la spinta vitale” e che è potenzialmente capace di farci guarire in tutti i sensi, fisico, psichico e spirituale.
Se questo modello della coscienza è corretto, allora si spiega la “nostalgia per un mondo interiore perduto” che hanno spesso percepito artisti e poeti, oppure anche si spiegherebbe l’orrore dei mistici per il mondo materiale e la loro perenne tensione verso l’estasi perché essa è uno stato di coscienza che ci permette di assaggiare, con la coscienza della veglia, la perfetta condizione nirvanica: l’estasi è un “sogno perfetto” e il Paradiso è dentro di noi.

Io spero che questo modello stimoli ad un approfondimento dei molti concetti che ho esposto sotto forma di spunti senza poterli sviluppare e soprattutto spero di essere stato in grado di avervi fatto capire l’importanza di conoscere se stessi.

Tratto dal convegno di ALBA "VERSO LA NASCITA DI UNA COSCIENZA PLANETARIA"
 

 
 
 
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